È stata la mano di Dio, l’ultimo film di Paolo Sorrentino, che già dal titolo apre scenari infiniti. La storia di un ragazzo, tifoso del Napoli, studente del Liceo classico, sempre accompagnato dalle sue cuffie, solitario e insicuro, che è costretto a fare i conti con la realtà, raccontata nella meravigliosa Napoli degli anni ottanta. Una Napoli che inizialmente ci vieni dipinta piena di luce, gioiosa e ricca di momenti spensierati e allegri.

Ma poi, il mondo rassicurante e felice dell’adolescenza del protagonista, protetto dai genitori, viene disintegrato. La luce si fa più fioca: Napoli non brilla più come prima, gli sguardi diventano velati, tristi, e l’atmosfera è pervasa da lunghi silenzi o da frasi brevi, contratte. Fabietto, alter ego del regista, è sopraffatto dal dolore e dalla solitudine: ed ecco la scena di disperazione all’arrivo in ospedale, ecco l’addio dei fratelli a Stromboli, in cui il fratello più grande esprime la sua incertezza e in questo modo confessa di non potersi prendere cura di Fabietto, al quale sa solo raccomandare di stare attento «a tutto»; ecco la corsa verso il cinema, verso la ‘finzione’ per sfuggire alle durezze della realtà; ecco la fuga da Napoli, un addio all’adolescenza felice e a tutto il peso di ricordi divenuti insopportabili. Ma, anche se il futuro fa paura, c’è sempre lui, Diego, che per tutto il film mantiene un ruolo fondamentale: sempre lì a sostenerlo, a farlo sorridere, a dargli coraggio, e soprattutto a salvarlo.
Il film è una narrazione del dolore, di un trauma: quello di essere “sopravvissuto” (in effetti, il regista si era sottratto al viaggio in montagna per potersi recare allo stadio a vedere il Napoli di Maradona), con il senso di colpa che questo può comportare.
E, infatti, come dice lo zio, dando il titolo al film e in un certo senso spiegandolo: «È stato un miracolo, è stata la mano di Dio».
Maradona ti ha trattenuto e ti ha salvato, con un secondo ‘miracolo’, non il goal di mano ai mondiali contro l’Inghilterra, ma l’attrazione per una ‘divinità’ del calcio capace di trattenere a Napoli un ragazzino e di salvarlo da una morte atroce.
È assurdo, ovviamente, invocare il miracolo, è grottesco, ma è un modo per addolcire la realtà, e soprattutto per disintegrare questo insopportabile senso di colpa: se è un ‘miracolo’, che ‘colpa’ ne ho?

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