Ricordate il bambino che, quando eravate piccole, vi prendeva in giro, vi spintonava e vi trattava male? “Lo fa perché gli piaci” ci dicevano. E il peggio è che era vero.

Ecco l’inizio di tutto: da quel momento in poi avremmo imparato che il ruolo che la società ci assegna sin dall’infanzia è quello della preda, mentre il compito del bambino che abbiamo di fronte è di dimostrare quanto lui, in qualità di maschio, sia in grado di sottomettere e di ottenere. Dopo anni ci rendiamo conto che il fenomeno ha un nome, ed è “violenza di genere”, quel tipo di violenza commessa sulla base dell’identità di genere della vittima e che nella stragrande maggioranza dei casi colpisce le donne.

Ecco l’inizio di tutto: da quel momento in poi avremmo imparato che il ruolo che la società ci assegna sin dall’infanzia è quello della preda, mentre il compito del bambino che abbiamo di fronte è di dimostrare quanto lui, in qualità di maschio, sia in grado di sottomettere e di ottenere.

Dopo anni ci rendiamo conto che il fenomeno ha un nome, ed è “violenza di genere”, quel tipo di violenza commessa sulla base dell’identità di genere della vittima e che nella stragrande maggioranza dei casi colpisce le donne.

Troverete difficile da credere che un bambino, così piccolo e così ingenuo, possa già essere stato influenzato socialmente e culturalmente, ma qui non si tratta di età: quella che chiamiamo “cultura del possesso” trova origine nella società profondamente maschilista e patriarcale nella quale siamo costretti a vivere e che condiziona i pensieri e le azioni di tutte e tutti.

Sono tanti i modi in cui si esprime la violenza di genere, a partire dalle micro-aggressioni, fino alla violenza fisica e sessuale: fenomeni come il catcalling, le molestie di strada e lo stupro, ma anche la disparità salariale o la violenza psicologica, sono estremamente diffusi e hanno avuto frequenza ancor maggiore durante questo periodo pandemico.

Soffermandoci proprio sul concetto di micro-aggressione e molestie di strada, sicuramente ci tornerà alla mente l’episodio che vede protagonista la cronista Greta Beccaglia, palpeggiata platealmente in diretta TV da un tifoso fuori lo stadio di Empoli e poi invitata dal conduttore del programma sportivo a “non prendersela”. Gesti di questo tipo, la cui gravità non va assolutamente sottovalutata, si presentano come semplici commenti, “toccatine”, ma celano la volontà di inferiorizzazione e umiliazione della donna, la quale non deve dimenticare di far parte del famoso “secondo sesso”: l’obiettivo non è la sottomissione fine a se stessa, ma utile all’esercizio di potere messo in pratica dall’uomo, tanto per accentuare la visione dell’uomo-cacciatore e della donna-preda.

Vi è poi la manifestazione massima della violenza di genere: il femminicidio. Se ne sente tanto parlare, la chiamano “emergenza”, ma sembra che nessuno si stia preoccupando più di tanto: le quarantasei donne uccise per mano di partner o ex-partner, tra il primo gennaio e il 22 agosto 2021, sarebbero sicuramente d’accordo. 

Qualche mese fa, nel programma Lo sportello di Forum, la giornalista e conduttrice televisiva Barbara Palombelli, riferendosi alla notizia dei sette femminicidi della settimana precedente, si chiedeva: «Questi uomini erano completamente fuori di testa oppure c’è stato un comportamento esasperante e aggressivo anche dall’altra parte?». Parole raccapriccianti sono state pronunciate in diretta TV da una donna che, venuta a conoscenza della tragica morte di sette sue pari, ha ipotizzato che esse stesse potessero aver istigato i loro assassini a commettere un tale crimine, come se ciò potesse in qualche modo giustificare l’accaduto o renderlo meno grave.

Le donne vittime di femminicidio, cara Palombelli, muoiono sempre per lo stesso movente, che non è il troppo amore e la troppa passione che l’uomo prova nei confronti della vittima e che i media ci raccontano; non è un possibile squilibrio mentale del carnefice, utile solo a giustificare l’atto, dettato dalla cultura patriarcale, con una possibile malattia; e non si tratta neanche dell’atteggiamento assunto dalla donna: le vittime sono tali perché il ruolo sociale che rappresentano è quello di oggetti di proprietà maschile. Nel momento in cui rifiutano di sottomettersi al possesso, esse vengono punite. Come fare dunque? Sembra impossibile estirpare del tutto un aspetto culturale fortemente radicato nella nostra società, ma il modo c’è, e la parola chiave è una sola: educazione.

Bisogna prima di tutto imparare a riconoscere la violenza di genere, per poi poterla combattere.

Ma attenzione, non si tratta semplicemente di educare i singoli alla non-violenza: la cultura del possesso è una responsabilità comune a tutte le persone, che hanno il compito di prendere le distanze e liberarsene. In particolare, è necessario che ci si allontani dagli stereotipi e dai ruoli di genere, dalla visione della donna passiva e dell’uomo aggressivo, che vive ogni rifiuto come un profonda messa in discussione della propria virilità.

Il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, è ormai passato ed il mondo sembra essersi già dimenticato di noi, di tutte le donne che subiscono molestie e violenze in ambito familiare, di coppia, lavorativo, scolastico. Una giornata non è abbastanza: la lotta va portata avanti ogni giorno, da e per tutte e tutti.

Dobbiamo, infatti, tenere bene a mente che la cultura del possesso e la cosiddetta “mascolinità tossica”, oltre ad essere dannose per le donne, limitano la libertà degli uomini, i quali devono dimostrare continuamente la propria dominanza e la propria virilità, senza potersi concedere un po’ di umana debolezza. I ruoli di genere vanno eliminati per tutti e tutte, nell’interesse di tutti e tutte.

Eleonora Riccio
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