La storia che non dimenticheremo mai è ora su Netflix
Yara Gambirasio è scomparsa il 26 novembre 2010 a soli tredici anni da Brembate, paese della Bergamasca nel quale viveva insieme alla famiglia, e il suo corpo è stato ritrovato il 26 febbraio 2011. Uno dei primi ricordi che ho della mia infanzia riguarda Yara: il suo sorriso in una foto al Tg e mia mamma che mormorava qualche preghiera con le lacrime agli occhi. Yara aveva la stessa esatta età di mia sorella, portava lo stesso apparecchio e facevano entrambe ginnastica. Ricordo un’atmosfera che non trovava parole: quella consapevolezza che sarebbe potuto succedere anche a noi.
Questo è lo stesso sentimento che mi ha lasciato questo film, disponibile su Netflix da metà ottobre. Ho deciso di guardarlo dopo un po’ di tempo perché nessun momento mi sembrava adatto per quella storia e, in fondo, noi esseri umani raramente scegliamo consapevolmente di affrontare il dolore. Ma proprio per lo stesso motivo, credo che questo film dovrebbe essere visto per rivivere, o vivere per la prima volta, una delle pagine più buie della cronaca degli ultimi anni. Questo film deve essere visto perché nessuna persona possa dimenticare: perché dovremmo lasciare che sia Yara ad insegnarci qualcosa sul nostro futuro e sul mondo che ci circonda.
Il film, nonostante la semplicità delle riprese e dei dialoghi, si articola in due linee narrative: una principale dedicata a Yara, anche attraverso gli emozionanti scritti del suo diario, ed una dedicata all’indagine nei suoi aspetti più concreti. Le inesattezze dovute all’adattamento “fiction” sono varie, come quella secondo la quale sia possibile localizzare precisamente un cellulare in base alla cella telefonica agganciata, ma possono essere tralasciate accettando che ogni storia, quando viene adattata al cinema, subisce piccoli errori come questi.
Il centro focale, però, resta la pm Letizia Ruggeri, interpretata perfettamente da Isabella Ragonese, di fatto volto più noto dell’intero film. È la sua personalità ad emergere, è la sua lotta per la verità a dare vita al film e sono le sue speranze ed i suoi dubbi che ci accompagnano lungo quello che è stato un percorso tutt’altro che facile. Ci troviamo davanti ad uno dei casi più controversi della magistratura del nostro paese e, pur non arrivando mai alla rappresentazione esplicita di ciò, questo aspetto è particolarmente rimarcato. Le critiche maggiori al regista Marco Tullio Giordana riguardano, infatti, l’aver tralasciato l’iter processuale, anche in merito alla possibile mancanza di analisi sul DNA mitocondriale, utilizzato per risalire all’assassino e punto fondamentale della sua difesa. È proprio la difesa di Bossetti, l’uomo accusato per l’omicidio che ad oggi sconta la sua pena in carcere, ad accusare il film di essere troppo parziale.
Io, la faccia di Massimo Bossetti la ricordavo perfettamente: il suo sguardo traverso era stampato nella mia memoria di bambina, e quando l’ho rivisto nello sguardo dell’attore (il cui aspetto è davvero accurato) ho sentito un brivido che per tutti e tutte noi non deve essere turbamento, ma consapevolezza.
Perché anche le storie più difficili hanno diritto di essere raccontate, e noi abbiamo bisogno di ascoltarle.


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